Jaufre Rudel, Lanquan li jorn son lonc en mai
Coi giorni lunghi in maggio un dolce canto
mi piace d’uccellini di lontano,
e quando sono andato via di là
porto in mente un amore di lontano: 4
vado abbattuto in cuore a capo chino,
che né canto né biancospino
mi piaccion più del gelo dell’inverno. 7
Non avrò mai gioia d’amore
se non di quest’amore di lontano,
che non ne so più nobile e migliore
in nessun luogo, vicino o lontano: 11
tanto è puro e sincero il suo valore,
che nel regno laggiù dei Saraceni
fossi per lei “quel povero!” chiamato! 14
Triste e gioioso me ne andrò
se mai vedo l’amore di lontano,
ma non so quando, perché sono
le nostre terre troppo di lontano: 18
ci sono tanti valichi e cammini,
che di ciò non posso essere indovino...
ma che sia come piace a Dio. 21
Che gioia quando chiederò
per Dio accoglienza di lontano,
e se vuole dimorerò
là presso, anche se sono di lontano: 25
sarà prezioso allora il conversare,
quando il lontano amante da vicino
godrà il piacere del suo bel parlare. 28
Credo bene il Signore veritiero
per cui vedrò l’amore di lontano,
ma per un bene che ne ho
ne ho due mali, che tanto son lontano. 32
Ah! Se fossi là pellegrino,
che il mio bordone e la schiavina
dai suoi begli occhi fossero guardati! 35
Dio che fece ogni cosa che va e viene,
e fermò quest’amore di lontano,
mi dia il potere, poiché io ne ho il cuore,
che io veda l’amore di lontano 39
per davvero e in un luogo tale
che la camera ed il giardino
m’appaiano sempre un castello! 42
Dice il vero chi mi dice goloso
e voglioso d’amore di lontano,
che non mi piace tanto alcuna gioia
quanto godere amore di lontano. 46
Ma ciò che voglio m’è impedito,
che il mio padrino m’ha stregato
perché amassi e non fossi amato. 49
Ma ciò che voglio m’è impedito.
Che sia maledetto il padrino
che mi stregò perché non fossi amato! 52
Testo: Jaufre Rudel, L’amore
lontano, a cura di Giorgio Chiarini, Roma, Carocci, 2003 (nuova
ed., a cura di Marco Infurna, di Giorgio Chiarini, Il canzoniere di Jaufre Rudel, L’Aquila,
Japadre, 1985).
Il testo è in
ottosillabi (novenari), che nella traduzione, a tratti alquanto libera, sono
per forza
di cose diventati quasi tutti endecasillabi.
Tutto è molto
incerto, in questa poesia apparentemente limpida, a cominciare dalla tradizione
manoscritta, che è un discreto rompicapo. Cercando una versione
poetica (il primo tentativo lo
feci alla fine del corso di Silvio Pellegrini che frequentai nel
1969-70) non ho preteso di risolvere
nessun problema; noto solo che ho evitato ogni concordanza
grammaticale con l’oggetto del
discorso e del desiderio, amore
o donna, per mantenere l’ambiguità
del provenzale, in cui sono
entrambi femminili.
La traduzione
dell’ultimo verso della seconda strofa tiene conto di un’interpretazione di
Lucia
Lazzerini
(in Silvaportentosa. Enigmi, intertestualità sommerse, significati occulti nella letteratura
romanza dalleorigini al Cinquecento, Modena, Mucchi, 2010, pp.43-52
(che all'epoca non era
ancora stampata, ma l'avevo appresa dal sommario di un
seminario tenuto a Napoli, novembre 2007).
Per l’ultimo verso
della quarta strofa sto alla lezione della vecchia edizione a cura di Alfred
Jeanroy, Paris, Champion, 1915, 2a ed. 1924 (qu’ab bels digz jauzira solatz); testo e
trad. di
Chiarini: qu’ab cortes
ginh jauzis solatz, «che con cortese sagacia potrebbe gustare la gioia
della
sua intimità».
Per la data, mi pare
sempre ragionevole pensare che ci si trovi a ridosso della seconda
Crociata (1147-48), nonostante la recente tendenza di più
studiosi a retrodatare la produzione
di Jaufre Rudel.