Canto secondo
senza ali non si vola
qual fummo in aere e in acqua la schiuma
Ma quando avrà finito
di raccontare la storia della sua vita
sarà un bischero come prima: dategli una pasticca
e mettetelo buono. Una pasticca
perché dei modi in cui si manifesta
l’ironia del creato sulla creatura
il più dolce di tutti è il sonno. Alcuni
vivendo in gelide profondità
mai visitate dalla luce perseguono
il premio evolutivo procreando
figli senza numero, per lo più
cibo ad altre creature; ma di tutti
uno a volte superstite avventurandosi
all’aria per errore detto mostro
(ludus naturae) cibo fatto a più nobile
voracità a più vera vita accede
entro dipinta teca, sopravvivere
essendo fine solo alle creature
più coinvolte nel vano
affaticarsi degli elementi,
e tuttavia costoro dando cibo
al piazzista di pillole: quanto più
invisibile uno
tanto più si presenta in forme estranee:
ma il mascellone viene alla finestra e
si piace,
dice: il cappero è in fiore e io ci
provo gusto;
il mascellone dice: cosa credi di fare,
tu verme malinconico ignaro del buono e
del giusto,
un granello in un meccanismo bene
oliato,
un piccione dentro un reattore
decollato,
un foruncolo al culo del creato?
Senza ali non si vola:
fratelli, quanto a quelli che sono
volati in cielo
a più gioiosi canti solleviamo lo
spirito.
Nell’inferno c’è morte senza morte,
in paradiso vita senza vita,
altri quaggiù s’aggirano ridendo forte,
succhiando il sangue dall’altrui ferita:
ma quando in capo a Giona seccò il
ricino
significando quanto è duro
intendere il volere
d’un Dio che parla chiaro e pensa
oscuro,
i Ninivesi l’ebbero fatta franca,
pentiti forse, certo noncuranti
della sorte infelice della pianta.
La vita non ci dà che trasalimenti,
e polvere di voci in cui la mente
se non ingenti litterarum flumine
inundata, di quello
che i topi risparmiarono (maiorum
laudes clamoribus stridebant
inconditis) diventa magra e sterile,
e facile a tremare
sul ramo gemma prematura
che un mite inverno nutre nell’attesa
della gelata prossima: perché
non è più il caso che un Ulisse navighi
tutto quel tempo dentro una pozzanghera,
sbattuto su lontane isole dove
fedele sì ma non disposto
a sputare sulla grazia di Dio
restò così a lungo nascosto
dall’ira del vorace
abitatore di profondità.
Deus, dist li reis, si penuse est ma
vie!
Sebbene fosse certo il colonnello
comandante che pure
se più moderni meccanismi fanno
strada all’inevitabile conquista
dell’altrui posizione è sempre il
piccolo
fante con la sua arma individuale
che ne prende possesso: ma allo spirito
del mondo che fu visto transitare
dal sovrano filosofo a cavallo
Giuseppina diceva: se ti pare
fa’ pure la campagna militare,
ma non tornarmi a casa così sudicio.
Guerra mi play quan la vey comensar!
Il birillone certo del suo buon diritto
pulsis campanis cerca il parapiglia,
tactisque sanctis evangeliis
ANATHEMA!, dà il verme per sconfitto.
Senza ali
il piccoletto si spezzò le ossa
fra le risa dei mongoli strisciando
a casa dove inacidì nell’ozio
farneticando sui libri di storia,
e tornarono a piedi dalle quattro parti
del mondo
lasciando scie di sangue e di barattoli
a futura memoria.
La pietà popolare inghiottì tutto
e digerì la paludata intelligenza,
finché non restò in scena che la bestia
forma della celeste indifferenza,
l’animale di Giobbe, il rinoceronte,
che ha cornuto il naso e non la fronte
non senza una ragione
e si crede avviato all’estinzione:
sulla cui scorza fiore non germoglia
che non attinga dritto al fondo,
dov’è libero d’ogni alterazione,
il ritmo placido del cuore pulsante,
indifferente alla celebrazione
ed ai gorgheggi del canoro elefante.
Davanti a lui per intervalla insaniae
l’animale politico che sfoglia
l’enigmatica pianta
sotto la vanità del vestimento
cerca la sostantifica
midolla.